Se si riuscisse a tagliare i costi e la burocrazia, permettendo alle imprese di riprende la propria piena attività, l’agricoltura italiana sarebbe in breve in grado di riassorbire circa 200 mila disoccupati.

Questo, in sintesi, il messaggio che la Cia - Confederazione italiana agricoltori ha lanciato nel corso del convegno nazionale “Il contributo dell’agricoltura per la riforma del lavoro e la crescita”, tenutosi a Roma e che ha registrato la partecipazione del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Elsa Fornero.

Ad aprire i lavori del convegno è stato il coordinatore della Giunta nazionale, Alberto Giombetti, cui è seguita la relazione introduttiva della responsabile Lavoro e relazioni sindacali della Cia, Claudia Merlino. Le conclusioni sono state svolte dal vicepresidente nazionale della Cia, Fabio Moschella.

In base ai dati diffusi, sono 200.314 le aziende agricole che assumono lavoratori. Il 61,4% sono ditte in economia, cioè imprese che soddisfano il proprio fabbisogno lavorativo esclusivamente attraverso manodopera dipendente.
Tra queste un numero crescente è composto da imprenditori agricoli professionali e società; il 33,9% sono coltivatori diretti che assumono manodopera, mentre il 4,6% sono imprese di tipo cooperativo, consorzi di bonifica, corpi forestali ed enti pubblici.  Il 76,4% delle imprese agricole assume fino a 5 operai ed il 12,7% fino a 10 lavoratori. Il restante 10,9% assume oltre 10 lavoratori.

Sono 1.094.365 gli operai agricoli. Volendo considerare anche l’indotto, il numero degli operatori del sistema agroalimentare rappresenta, il 12% circa della forza lavoro del nostro Paese.
Con gli aumenti stimati nell’1,1% del valore aggiunto e del 6,2% dell’occupazione, l’agricoltura conferma la propria vitalità al di la della crisi contingente ma affinché il settore possa fungere da volano della ripresa, è indispensabile liberarlo dalle sabbie mobili in cui attualmente si dibatte.

Forte di questi numeri, nel corso dell’incontro la Cia ha presentato al ministro Fornero e al vicepresidente della Commissione permanente Lavoro e Previdenza sociale del Senato, Tiziano Treu, le proprie proposte per la creazione a livello territoriale e di distretti produttivi di meccanismi incentivanti il passaggio dei lavoratori dai settori maggiormente in crisi all’agricoltura.

La prima chiave per questa restituzione di braccia all’agricoltura sarebbe, secondo la Cia, la distrazione parziale o totale dei fondi destinati agli ammortizzatori sociali e la loro destinazione a riqualificare i lavoratori indirizzandoli verso quei settori in cui la crisi non ha ancora stroncato il mercato del lavoro. 
"Pur in presenza di una profonda crisi, il settore primario ha ‘tenuto’ soprattutto sotto il profilo occupazionale - ha dichiarato il presidente Cia, Giuseppe Politi -. I motivi vanno ricercati nelle caratteristiche del lavoro agricolo, spesso visto come simbolo di precarietà e che, invece, ha dimostrato, proprio per la sua flessibilità, di adeguarsi meglio di altri a una congiuntura fortemente negativa".
Ma questo rischia di non bastare più per il futuro. Da qui la richiesta della Confederazione di tagliare i costi produttivi, come quello dei carburanti, che pesano in maniera opprimente sulle imprese.
A questo si deve aggiungere una sostanziale riduzione degli oneri contributivi, congrui incentivi e sgravi per premiare i comportamenti virtuosi della aziende e una drastica riduzione degli adempimenti burocratici, che da soli costano a piccole e medie imprese 26,5 miliardi di euro l’anno. Le misure che in materia sono state prese dal governo costituiscono certo un passo avanti, ma sono ancora insufficienti.
Della recente riforma del lavoro la Cia ha condiviso la flessibilità nell’utilizzo dei contratti a termine e il regime specifico di sostegno al reddito, ma criticato alcuni aspetti quali gli interventi sullo strumento dei voucher.



Roma, un momento del convegno


Quote rosa naturali

Una nota positiva giunge senz’altro dalla distribuzione di genere nel lavoro agricolo, dove le donne guidano il 33% delle aziende agricole e rappresentano quasi il 40% della forza lavoro complessiva.
Trend anticiclico nel meridione, dove a fronte di un tasso di disoccupazione femminile che sfiora il 50%, il numero di donne a capo di un’impresa agricola arriva al 34,7% del totale. Elemento comune alle aziende “rosa” è l’offerta di servizi all’avanguardia che si traducono in un contributo femminile al valore aggiunto dell’agricoltura stimabile intorno ai 9 miliardi di euro sui 26 totali del settore.
La presenza femminile in agricoltura cresce anche nel lavoro dipendenti: le donne occupate sono 406.000, pari a circa il 40% del totale. Due donne su tre lavorano nelle campagne meridionali e l’insieme delle lavoratrici agricole in Puglia, Calabria, Campania e Basilicata rappresenta circa il 70% della forza lavoro “rosa” nel settore.


Nuovi profili per l’imprenditoria agricola

Altro elemento interessante è quello del nuovo profilo dell’imprenditore agricolo. Stando ai dati diffusi da Cia, il ricambio generazionale sui campi stenta a decollare e la percentuale di imprenditori con meno di 40 anni rimane stabile sull’8%, ma sono in aumento le aziende guidate da giovani che nel 73% dei casi porta avanti l’attività familiare.
Nel restante 27% si nota un nuovo fenomeno: quello di giovani aziende guidate da professionisti provenienti dai settori più disparati che si rivolgono all’agricoltura come scelta di vita (33% dei casi) o per rispondere alla crisi (45%).
Un altro aspetto nuovo di queste imprese è il carattere di “equipe” della guida aziendale.
Al timone di queste realtà competitive e multifunzionali troviamo combinazioni assolutamente originali: quasi sempre c’è almeno un “addetto ai lavori” a cui si affiancano le figure professionali più disparate, che a volte si reinventano completamente agricoltori, ma più spesso portano il loro know-how in azienda dandogli una marcia in più dal punto di vista multifunzionale: insegnanti, psicologi e operatori sociali che creano “fattorie didattiche” e “fattorie sociali”; ingegneri che si cimentano nelle agro energie, o laureti in economia e in lingue che curano i bilanci e l’export aziendale, piuttosto che erboristi e farmacisti che trasformano l’azienda agricola in un laboratorio per la cosmesi e il benessere.
Uno stuolo di giovani professionisti, insomma, che incarnano il paradigma di “fare di necessità virtù”.ù